Viviamo nell’epoca dell’iperconnessione, dell’ottimizzazione, della prestazione. Siamo gli eredi digitali dell’Illuminismo, affacciati sul mondo da mille schermi e impegnati in una corsa continua verso il successo, l’autorealizzazione, la perfezione. Ma a quale prezzo? Se c’è un sentimento che accomuna individui di ogni estrazione sociale, culturale ed economica, è la stanchezza. Una stanchezza diffusa, sottile, che spesso si insinua nel quotidiano senza chiedere permesso. Una stanchezza che non risparmia nessuno, neanche chi ha scelto la via della libertà lavorativa o chi cerca equilibrio tra yoga e meditazione.
Non si tratta più soltanto della fatica fisica del bracciante o del turnista notturno. È qualcosa di più viscerale, profondo, esistenziale. Lo psicologo Herbert Freudenberger, negli anni Ottanta, l’ha chiamata burnout, ma il filosofo sudcoreano Byung-Chul Han è andato oltre, definendo la nostra come la società della stanchezza: un mondo in cui siamo noi stessi a imporci i ritmi più feroci, inseguendo senza sosta ideali interiorizzati di efficienza, bellezza, visibilità.
Non ci sono più solo padroni e schiavi, dice Han: oggi ciascuno è al tempo stesso sfruttatore e sfruttato di sé. Non serve un sorvegliante: bastiamo noi, con i nostri “devo fare di più”, “posso migliorare”, “non mi fermo ora”. La catena di montaggio non è scomparsa, è stata solo interiorizzata.
Eppure non tutti siamo stanchi allo stesso modo. Chi lavora in fabbrica è fiaccato dalla ripetizione; chi assiste bambini e anziani si consuma nell’emotività forzata; chi produce idee, contenuti o “creatività” è spremuto da una libertà che si è fatta obbligo. Persino i momenti di svago sono diventati performance: vacanze da documentare, hobby da monetizzare, corpi da mostrare in forma perfetta. Anche il riposo è sotto stress!!
Siamo stanchi… ma di cosa? Capita spesso di sentirsi affaticati, ma quando questa sensazione diventa cronica o altera la nostra capacità di vivere il quotidiano, è bene fermarsi e approfondire. La stanchezza può avere molte radici. Innanzitutto, è importante distinguere tra sonnolenza e stanchezza: la prima è il desiderio di dormire anche durante il giorno; la seconda è una mancanza di energia, anche se si è dormito a sufficienza. La sonnolenza potrebbe indicare un disturbo del sonno, mentre la stanchezza cronica può nascondere problemi medici come anemia, squilibri ormonali (ad esempio durante la perimenopausa), infezioni persistenti o sindromi come la fatica cronica.
In questi casi, consultare un medico è fondamentale, soprattutto quando la stanchezza compromette la capacità di lavorare, prendersi cura di sé o delle relazioni. Spesso, eventi stressanti – come un lutto o un cambio di lavoro – o uno stile di vita sbilanciato (alimentazione povera, esercizio eccessivo o assente) possono amplificare il senso di sfinimento.
La base di tutto resta il sonno. L’insonnia, le apnee notturne o il semplice sonno frammentato possono generare un circolo vizioso: dormire poco o male ci rende meno lucidi e più vulnerabili allo stress. La regola aurea: 7-9 ore per notte, con orari regolari. No a TV accese in camera, animali che entrano ed escono, luce blu e luci forti di sera, e sì alla luce naturale al mattino: è il nostro alleato per regolare il ritmo sonno-veglia. Dormire bene non è un lusso, è una necessità.
Siamo stanchi, è vero, è un dato di fatto… ma la soluzione non è una fuga. È una presa di coscienza. Possiamo allenarci a vivere meglio, con strategie semplici ma potenti che aiutano a ridurre il rumore di fondo e a ritrovare la lucidità. Ad esempio, no al multitasking: il mito del fare tutto insieme è una trappola. Secondo uno studio della Stanford University, chi si vanta di essere multitasking ottiene performance peggiori in memoria, attenzione e cambio di compito. Perchè in realtà non è solo una trappola: il multitasking, benchè per anni ci siamo illusi di poter fare più cose contemporaneamente, non esiste! E la scienza ce lo conferma: il nostro cervello non è progettato per gestire attività simultanee. Quando proviamo a passare da un compito all’altro, non li affrontiamo davvero in parallelo, ma entriamo in una modalità chiamata “switch tasking”: un continuo spegnere e riaccendere il focus tra un’attività e l’altra. Il risultato? Più fatica, più stress, meno efficienza. Invece di produrre di più, ci affanniamo inutilmente. L’abitudine al “saltellamento mentale” compromette la nostra capacità di attenzione, rendendo lo studio, il lavoro e persino le attività quotidiane più dispersive e meno soddisfacenti. Il consiglio è semplice: spegnere le distrazioni – primo fra tutti il cellulare – e dedicarsi a una sola cosa per volta. Il monotasking è l’unica via per recuperare focus, energia mentale e la gratificazione autentica che deriva dal completare qualcosa con impegno e presenza.
Se poi vogliamo fare un regalo al nostro cervello, muoviamoci: l’attività fisica regolare, anche leggera, migliora l’umore, riduce ansia e stress, stimola la crescita neuronale. Bastano camminate quotidiane per sentire la mente più leggera e ricettiva. Un corpo attivo è una mente più lucida.
E quando la mente vacilla, fermiamoci. Anche solo per pochi minuti. Una pausa, una camminata, una chiacchiera leggera: tutto vale, se serve a ricaricare. Uno studio dell’Università dell’Illinois mostra che le pause aiutano a mantenere alta la concentrazione nel tempo. Non è pigrizia, è saggezza! Nel tempo del “sempre connessi”, uno dei gesti più rivoluzionari è disconnettersi. Ogni distrazione digitale è un’ancora che trattiene una parte della nostra attenzione. Riducendo l’accesso a social e notifiche, recuperiamo una risorsa preziosa: la presenza mentale. In una società che premia solo l’azione, la noia sembra un nemico. Ma è proprio nei momenti vuoti che il pensiero si ricompone. Abituarsi a stare fermi, a non fare nulla, è un atto sovversivo: ma una noia sana, creativa non è tempo perso, è tempo ritrovato.
Il modo migliore di attraversare questo tempo stanco è non pretendere troppo da noi stessi, ma nemmeno troppo poco. È riconoscere i nostri limiti, rispettarli, proteggerli. E poi tornare, pieni di vita, a ciò che davvero ci nutre. C’è, insomma, una stanchezza che logora e una stanchezza che cura. Una che ci consuma e una che ci riconnette a noi stessi. La prima ci separa dal mondo, la seconda ci riunisce ad esso. Il segreto non è eliminarla, ma riconoscerla, darle un ritmo, renderla nostra alleata. L’equilibrio è una forma di intelligenza.
Sì, siamo stanchi. Ma possiamo anche essere liberi. E vivi. Di una vita piena, non solo piena di cose da fare.
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