Viviamo in tempi straordinari, ma anche straordinariamente complessi. L’era dell’informazione, dei social, dell’iperconnessione ci ha regalato possibilità prima impensabili, ma ha anche innescato una silenziosa frattura interiore: abbiamo perso l’equilibrio. In un mondo che ci invita continuamente a pensare, apparire, primeggiare, abbiamo dimenticato qualcosa di essenziale: vivere.
Su questo tema, nel suo romanzo “Succede sempre qualcosa di meraviglioso” Gianluca Gotto ci offre una ricchezza di spunti profondi e illuminanti, capaci di far riflettere e toccare corde inaspettate. I protagonisti del romanzo sono Davide, un ragazzo che vede sgretolarsi una dopo l’altra tutte le sue certezze, fino a perdere ogni voglia di vivere, e Guilly, una figura misteriosa e senza tempo che Davide incontra per caso — o forse per destino — in Vietnam, e da cui imparerà un modo nuovo, luminoso e sorprendente, di guardare alla vita. “L’uomo occidentale ha messo la mente su un piedistallo, dimenticando che è anche corpo e anima. Siamo molto più dei nostri pensieri.” Pensare è importante, certo: la mente è uno strumento straordinario. Ma quando prende il sopravvento, quando si trasforma in un tiranno che ci imprigiona in un labirinto di riflessioni continue, finisce per allontanarci dalla realtà e farci soffrire. Come ricorda Guilly, la malattia del troppo pensare un tempo era rara, oggi è ovunque, e questo rappresenta un problema serio, perché l’ingrediente fondamentale per una buona vita è l’equilibrio.
Il concetto non è nuovo: “In medio stat virtus”, dicevano già i latini. La virtù sta nel mezzo. Aristotele lo affermava oltre duemila anni fa, e il Buddha lo ha espresso attraverso l’insegnamento della Via di Mezzo: evitare gli eccessi è essenziale, perché è proprio negli estremi che si annida la sofferenza.
Troppo pensiero conduce all’ansia, troppo poco porta all’impulsività e al caos. Quanti grandi pensatori hanno vissuto esistenze segnate da dolore, depressione, solitudine e infelicità? Quanti si sono persi, alcuni arrivando persino al suicidio? Ma anche l’altro estremo è pericoloso: chi agisce senza pensare, spinto solo dall’impulso, si mette spesso nei guai, arrecando dolore a sé stesso e a chi gli sta vicino. La pace mentale nasce proprio da questo delicato equilibrio tra pensiero e azione.
Eppure, nella società di oggi, l’equilibrio è una merce rara. Viviamo in un’epoca di ego rumorosi, dove il sé si è trasformato in un marchio da esibire, e apparire conta più che essere. Dalla fine degli anni Settanta, gli studiosi hanno osservato un aumento significativo dei tratti narcisistici, soprattutto tra i giovani adulti, e l’avvento dei social media ha accelerato questo fenomeno: esistiamo solo se ci raccontiamo, solo se otteniamo conferme esterne. Il risultato? Più visibilità, meno felicità.
Attraverso gli aneddoti sul nonno di Davide, Guilly offre un’ulteriore lezione: quell’uomo, incapace di superare la paura di fallire, non trovò mai il coraggio di cambiare lavoro o trasferirsi all’estero. Temendo di dover tornare indietro “con la coda fra le gambe” e affrontare il giudizio degli altri, finì per fare scelte che lo condannarono, per il resto dei suoi giorni, a sensi di colpa inutili ma pesanti. “L’ego è il nostro più grande nemico. È l’ostacolo più grande tra noi e la nostra felicità, perché ci fa credere che la vita sia molto più complessa di ciò che in realtà è.”
Le scienze comportamentali hanno coniato un concetto inquietante: il paradosso della riflessione su se stessi. Pensare a sé è utile per sopravvivere, ma pensare troppo a sé stessi può generare infelicità. In un ambiente che stimola e amplifica a dismisura questo istinto, come quello digitale in cui viviamo, il rischio di smarrirsi diventa altissimo. Più ci fissiamo su noi stessi, più perdiamo contatto con il resto del mondo. E con la serenità.
Ma c’è una via d’uscita, la soluzione è coltivare un quiet ego, un ego tranquillo. Non si tratta di annullarsi, ma di trovare un’identità che non sia né egocentrica né completamente sacrificata agli altri. È un equilibrio interiore che si fonda su quattro virtù: empatia, consapevolezza distaccata, crescita e inclusività. Chi possiede un quiet ego è in grado di osservare se stesso con umiltà, comprendere gli altri, crescere continuamente e accettare le proprie emozioni senza identificarsi in esse. In pratica, significa riuscire a vivere con pienezza, senza restare imprigionati né nella mente né nell’orgoglio.
Possiamo chiederci “di cosa hanno bisogno gli altri che solo noi possiamo offrire?” ricordandoci così che il nostro valore non sta nel brillare da soli, ma nel contribuire al benessere di chi ci circonda. Possiamo orientarci all’azione concreta, che contrasta il lamento sterile con l’impegno attivo domandandoci “cosa può migliorare attorno a noi, e cosa possiamo fare noi a questo scopo?”. Il “Potrei sbagliarmi” è poi un inno all’umiltà, per non trasformare le nostre convinzioni in dogmi e restare così aperti al cambiamento. Ma soprattutto ricordiamoci che “Noi non siamo le nostre emozioni”, per una presa di distanza sana dai tumulti interiori, per riconoscerli senza esserne travolti.
Non è facile, certo. Ma ritrovare l’equilibrio non significa raggiungere la perfezione. Significa smettere di oscillare tra estremi che ci consumano: il pensiero ossessivo e la superficialità, l’individualismo narcisista e l’annullamento di sé, il controllo assoluto e l’abbandono totale.
Forse l’immagine più bella ce la offre ancora una volta il buddismo: l’io è una melodia che cambia nel canto della vita. Non siamo entità isolate, ma note in una sinfonia, e quando suoniamo in armonia con il mondo, con gli altri e con noi stessi, allora sì… accade qualcosa di meraviglioso.
In un mondo di ego rumorosi, l’equilibrio interiore non è solo possibile: è necessario. E forse è proprio la chiave per una felicità più vera, più profonda, più silenziosa.
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