Tra la fine di ottobre e i primi giorni di novembre, l’aria si fa più sottile. Non è solo l’autunno che cambia la luce: è il tempo che si piega su se stesso, come se la vita si specchiasse nella morte per ricordarci che l’una non esiste senza l’altra.
È la festa di Ognissanti e la commemorazione dei defunti, un’occasione che ogni anno ci invita — se solo abbiamo il coraggio di ascoltare — a tornare in contatto con le nostre radici, con chi siamo stati, con chi abbiamo amato e perso.
Queste giornate sono un rito collettivo: le famiglie si ritrovano, le tombe si adornano… e non è tristezza, è amore organizzato in forma di rito, con la certezza, o forse la speranza, che i morti non spariscono, ma semplicemente abitano un’altra stanza della casa del mondo.
Ognissanti è la festa dei legami: un giorno in cui il mondo dei vivi e quello dei morti sembrano toccarsi. È una soglia, una porta socchiusa tra due dimensioni. Si dice che nella notte tra il 31 ottobre e l’1 novembre i morti tornino a farci visita, e che noi, in fondo, li attendiamo. È un momento che consola e spaventa insieme, perché nessuno è mai pronto a un addio.
Come scrive la poetessa Vivianne Lamarque:
“L’ultima volta che la vide non sapeva che era l’ultima volta che la vedeva.
Perché queste cose non si sanno mai.
Allora non fu gentile quell’ultima volta?
Sì, ma non abbastanza per l’eternità.”
Ecco, il rito serve proprio a questo: a restituirci un’ora in più. Un’ora simbolica, per salutare chi non abbiamo salutato, per dire quello che non abbiamo detto, per ascoltare con il cuore chi non parla più. Nel ricordo, ci ritroviamo, e, nel gesto, ci curiamo.
Non è solo poesia: la scienza lo conferma. Antropologia, psicologia, neuroscienze e perfino economia comportamentale concordano sul fatto che i riti fanno bene. Non sono semplici abitudini: sono ancore emotive, strumenti che regolano lo stress, calmano l’ansia, favoriscono la concentrazione e rafforzano il senso di appartenenza. Durante un rito, il nostro cervello si sincronizza, si ordina, ritrova equilibrio. Gli studi parlano chiaro: i riti riducono i livelli di cortisolo, aumentano la sensazione di controllo e di serenità. Persino chi non crede al significato spirituale del gesto ne trae beneficio, perché il cervello riconosce nella ripetizione e nella simbolicità un segnale di sicurezza.I riti, insomma, non cambiano il mondo esterno, ma cambiano quello interno. E questo, spesso, basta per guarire.
Pensiamo agli atleti prima di una gara, agli studenti prima di un esame, a chi accende una candela prima di una giornata difficile: tutti piccoli rituali di centratura, che mettono in moto un meccanismo psicologico di calma e concentrazione. Il rito crea flow, quello stato di presenza totale in cui mente e corpo si allineano, e il mondo, per un attimo, tace.
E poi c’è la dimensione collettiva, che è forse la più potente. Durante i riti condivisi — che sia una preghiera, una processione o un semplice silenzio insieme — accade qualcosa di incredibile: i battiti cardiaci si sincronizzano. Lo hanno misurato davvero, nei laboratori di neuroscienze: il rito fa battere i cuori all’unisono. Accorcia le distanze. Rende visibile l’invisibile.
Ed è proprio questo il cuore di Ognissanti: un rito che ci ricorda che non siamo soli. Che le persone che abbiamo amato non sono perdute, ma trasformate. Che la memoria non è un peso, ma una forma di continuità. Quando ricordiamo qualcuno, lo riportiamo — anche solo per un attimo — nel mondo dei vivi. E in quell’attimo, siamo più vivi anche noi.
Immaginiamoli, i nostri cari, se potessero tornare stanotte. Cosa ci direbbero? Forse ci chiederebbero di vivere più leggeri, di ridere di più, di non aver paura. E noi, cosa diremmo loro? Che ci mancano, certo. Ma anche che, nel nostro modo di vivere, di amare, di essere gentili, c’è ancora un po’ di loro.
Ecco allora il vero significato di Ognissanti: una festa che cura. Una celebrazione che ci restituisce senso, coesione, gratitudine. Una pausa per respirare dentro il tempo, per dire grazie e per ricordarci che vivere — davvero vivere — è il modo più bello di onorare chi non c’è più. Accendiamo, dunque, una candela: non per scacciare il buio, ma per illuminarlo. Perché è solo nel buio che la luce mostra la sua verità.
Ognissanti è il nostro memento mori, sì — ma anche il nostro memento vivere.
E in quel respiro sospeso tra memoria e presenza, tra lacrima e sorriso, c’è tutta la bellezza di essere umani.





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