Il cibo è molto più di semplice nutrimento. Mangiamo non solo per soddisfare un bisogno fisico, ma anche per ragioni emotive, sensoriali e persino sociali. La fame, infatti, può assumere diverse forme, e riconoscerle è il primo passo per costruire un rapporto più consapevole e sano con il cibo. Essere completamente presenti e consapevoli mentre mangiamo, trasformando il momento del pasto in un’esperienza più profonda e coltivando una maggiore attenzione verso ciò che scegliamo di mangiare, come lo consumiamo e le sensazioni che ci procura… è il principio su cui si basa la Mindful Eating, il cui obiettivo è quello di riscoprire il piacere del cibo, senza distrazioni e senza fretta, in assenza di giudizio, sintonizzandoci sui segnali del nostro copro, riconoscendo la fame vera e la sazietà, e lasciandoci guidare dai nostri sensi. E, a proposito di fame, la mindful eating ha identificato nove tipi di fame: esserne consapevoli ci aiuta a esplorare i diversi stimoli che ci portano a mangiare, permettendoci di distinguere tra la fame fisica e quella mentale o emotiva.
La fame degli occhi è quella che viene innescata da ciò che vediamo. Un piatto ben presentato, colori vivaci, porzioni abbondanti: tutto ciò può farci desiderare di mangiare, anche se non siamo realmente affamati. Gli occhi osservano una pietanza e, se la trovano esteticamente invitante, inviano segnali al cervello accendendo il desiderio di mangiarla, anche se lo stomaco è sazio. Le pubblicità di cibi invitanti e le foto sui social media spesso alimentano proprio questa fame visiva, che può portare a consumare più del necessario, semplicemente perché qualcosa ci sembra attraente. La fame del tatto si manifesta attraverso la consapevolezza delle sensazioni tattili legate al cibo: la consistenza, la temperatura, la forma durante il morso. Questo tipo di fame si nota nelle culture che per mangiare utilizzano le mani, utili per un’ulteriore connessione con il cibo. La fame delle orecchie è quella che ci viene quando sentiamo qualcuno sgranocchiare, o quando sentiamo il tintinnio di stoviglie, piatti e pentole. È un richiamo, e non a caso molte pubblicità fanno leva sui suoni del cibo (il “crock” di un grissino, il morso sulla copertura di un gelato, ecc). Si tratta anche della fame evocata di quell’ascolto che traduce le parole in gusto e bontà per chi ascolta: sentiamo una bella descrizione di una pietanza e ci viene l’acquolina! La fame del naso è stimolata dal profumo di cibi deliziosi: l’odore di pane appena sfornato, caffè o biscotti può scatenare un desiderio immediato di mangiare, spesso al di là del nostro bisogno fisico di cibo. La fame della bocca riguarda la ricerca di stimoli gustativi e consistenze diverse, ed è spesso legata al piacere di masticare o assaporare determinati cibi. Quando proviamo la fame della bocca, non stiamo solo cercando di placare il nostro appetito fisico, ma stiamo cercando un’esperienza sensoriale appagante attraverso il gusto del cibo, un’esperienza che è soggettiva poiché si basa su genetica, abitudini alimentari della famiglia, background culturale e condizionamenti che portano ad associare determinati cibi con esperienze piacevoli oppure no. La fame dello stomaco è invece la fame fisica, quella che si manifesta con sensazioni come brontolii, vuoto o crampi. È il segnale che il corpo ha realmente bisogno di energia per funzionare. Tuttavia, anche la fame dello stomaco può essere influenzata da abitudini alimentari o aspettative mentali, come mangiare a orari fissi, indipendentemente dal bisogno reale. La fame delle cellule è quella fame profonda che il corpo sperimenta quando mancano specifici nutrienti: può manifestarsi come un desiderio improvviso di determinati alimenti, come il cioccolato (magari per una carenza di magnesio) o cibi ricchi di proteine. La fame della mente è alimentata dai pensieri su cosa, quando e quanto dovremmo mangiare, ed è influenzata da regole alimentari autoimposte, diete, credenze culturali o persino dal senso di colpa legato al cibo. La fame del cuore nasce dal desiderio di sentirsi amati e accuditi.
Ci sono momenti in cui il bisogno di mangiare non nasce dalla fame, ma dalle emozioni che stiamo vivendo. Questo fenomeno, conosciuto come Emotional Eating, si manifesta quando le emozioni prendono il controllo e guidano il nostro comportamento alimentare. Non è più il corpo a dettare cosa e quanto mangiare, ma sentimenti come tristezza, rabbia o stress. In quei momenti, il cibo diventa un rifugio, un modo per evitare di affrontare ciò che ci affligge. Per qualcuno, mangiare diventa una risposta automatica alla noia o alla frustrazione, per altri un tentativo di soffocare pensieri e preoccupazioni. Spesso si ricorre a cibi ricchi di calorie e zuccheri, come i dolci, il che può portare a mangiare in eccesso e persino a vere e proprie abbuffate, caratterizzate da un senso di perdita di controllo, che se ripetute e frequenti possono trasformarsi in un disturbo alimentare conosciuto come Binge Eating Disorder o Disturbo da Alimentazione Incontrollata.
Il cibo ha un legame profondo con le nostre emozioni. Da sempre associato al piacere e alla celebrazione, è anche una fonte di conforto nei momenti difficili. Questo legame affonda le radici nei nostri antenati, quando le scelte alimentari si basavano sulla sopravvivenza: di fronte a un gelato o a un broccolo, il nostro cervello sceglie istintivamente il cibo più calorico, poiché un tempo le calorie significavano vivere e sopravvivere. Oggi, però, questo sistema si è evoluto in modi meno utili, portando a voglie e abitudini compulsive, e quando il cibo diventa la principale forma di ricompensa e conforto, il confine tra gratificazione e dipendenza può sfumare, con effetti profondi su corpo e mente. Il nostro sistema di ricompensa rilascia dopamina ogni volta che mangiamo qualcosa che ci piace, rafforzando il comportamento e trasformandolo in un’abitudine. Cambiare queste abitudini è complesso perché seguono un ciclo preciso: stimolo, routine e ricompensa. Tutto inizia con un segnale, che attiva una routine (fisica, emotiva o mentale), e se questa porta gratificazione, il cervello memorizza il legame, creando un circolo automatico che genera aspettativa e bisogno. Nel caso della fame emotiva, spezzare questo ciclo può sembrare una sfida enorme, quasi insormontabile, ma non è impossibile: si può fare, e la chiave sta nell’aggiornare il valore della ricompensa! Dopo aver identificato i segnali che ci spingono a cercare conforto nel cibo, possiamo costruire un piano d’azione che preveda attività alternative. Che sia leggere, fare una passeggiata, o dedicarsi a un hobby che amiamo, queste nuove attività ci aiuteranno a rimanere focalizzati quando la tentazione si presenta. È fondamentale che le alternative siano attrattive, piacevoli e gratificanti, in un contesto che ci faccia sentire bene, magari in un ambiente confortevole, o coinvolgendo persone care. Collegando emozioni positive a queste nuove abitudini, sarà più semplice superare la spinta verso il cibo come rifugio emotivo. Inoltre, è importante che le nuove abitudini siano facili da mettere in pratica: non devono richiedere uno sforzo eccessivo o risultare stressanti, ma essere immediate, quasi naturali. E, soprattutto, dobbiamo celebrare ogni piccolo passo avanti: la gratificazione che deriva da questi successi, anche se piccoli, è ciò che ci permetterà di consolidare il cambiamento!
Riconoscere quando mangiamo per emozioni anziché per fame è il primo passo per interrompere questo schema disfunzionale. Cambiare queste abitudini richiede un processo di consapevolezza: ognuno di noi può affrontare le emozioni che ci spingono a cercare conforto e aggiornare il valore che il nostro cervello attribuisce al cibo, spezzando il circolo vizioso, creando nuove abitudini e prendendoci cura di noi stessi, per riscoprire un equilibrio più sano e vivere una vita più serena.
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