Siamo costantemente immersi in messaggi di giustizia, uguaglianza, inclusione, dignità e armonia tra le persone. Eppure, nonostante queste virtuose aspirazioni, c’è un’ombra persistente che continua a oscurare la nostra società: la violenza di genere. Non è solo un atto fisico, ma una profonda ferita emotiva e psicologica che prende forma attraverso il controllo, l’abuso, la negazione di libertà e la svalutazione dell’identità di una persona, solo per il fatto di appartenere a un genere. Il 25 novembre si celebra la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, istituita dall’ONU nel 1999. Questa giornata richiama l’attenzione sulla violenza fisica, psicologica, economica e sessuale che molte donne subiscono quotidianamente in tutto il mondo: è un’occasione per sensibilizzare l’opinione pubblica, denunciare ogni forma di abuso e promuovere azioni concrete per prevenire e combattere la violenza di genere.
Affrontare con serietà un tema così drammatico, che tocca le radici stesse della nostra società, significa partire da una solida base: l’educazione.
L’educazione deve cominciare fin dai primissimi anni di vita ma non può essere un’educazione finalizzata al genere… innanzitutto perché la percezione della differenza di genere nei bambini non c’è, matura man mano con il passare degli anni, e poi perché sull’educazione influiscono molteplici fattori. L’educazione deve, dunque, essere comprensiva del rispetto della persona in generale e deve rendere un bambino capace di instaurare con tutti relazioni sane, prive di pregiudizi e di prevaricazioni. Ogni bambino nasce come una pagina bianca: i suoi primi insegnamenti non arrivano dai libri o dalla scuola, ma dagli sguardi, dalle parole e dai gesti di chi lo circonda. È in famiglia che impariamo cosa significa amare, rispettare, ascoltare. Ed è sempre qui che possiamo apprendere – o non apprendere – come riconoscere e gestire le emozioni.
Già, le emozioni. Perchè la violenza di genere spesso affonda le sue radici proprio nell’incapacità di comprendere e gestire emozioni profonde, come rabbia, frustrazione o paura del rifiuto. Quando queste emozioni vengono represse o mal canalizzate, possono trasformarsi in comportamenti distruttivi verso gli altri o verso se stessi. Il modo in cui esprimiamo – o reprimiamo – le emozioni è influenzato da diversi fattori, che spesso agiscono come ostacoli invisibili. Tra questi, spiccano i fattori cognitivi, come le strategie di coping e la dissonanza cognitiva. Il coping rappresenta gli sforzi mentali e comportamentali che mettiamo in campo per affrontare le difficoltà: quando orientato alle emozioni, ci permette di riconoscerle e gestirle in modo sano. Al contrario, rimuginare sulle emozioni “negative” senza agire per regolarle non fa altro che amplificare il disagio, aprendo la strada a problemi come ansia, depressione e stress. E quando queste emozioni non trovano una via d’uscita, possono trasformarsi in comportamenti distruttivi. La dissonanza cognitiva, invece, nasce quando c’è un conflitto tra ciò che pensiamo e ciò che facciamo: questa incoerenza genera un malessere interiore che spesso tentiamo di mascherare con autoinganni. È come nella favola di Esopo: la volpe che non riesce a raggiungere l’uva si convince che sia acerba, per soffrire meno. Questo “raccontarsela” può diventare estremamente disfunzionale, soprattutto nelle relazioni tossiche: ci convinciamo che la manipolazione sia amore, che i maltrattamenti siano normali, finendo intrappolati in una spirale di negazione e illusioni. A questi si aggiungono i fattori psicosociali, ovvero il timore di essere esclusi dal proprio gruppo sociale, gli stereotipi di genere e di ruolo, e i fattori emotivi come paura, colpa e vergogna: la paura di ritorsioni che diventa una barriera insormontabile alla ricerca di aiuto, quel senso di colpa che fa sì che le vittime si sentano responsabili della violenza subita, e la vergogna che, spesso legata ad una sensazione di fallimento personale, spinge a nascondere il dramma per paura del giudizio altrui.
Ma cosa accadrebbe se, fin da piccoli, ci insegnassero che le emozioni non sono un nemico, ma una guida? Se imparassimo che piangere non è debolezza, ma un modo naturale per liberarsi dal peso di ciò che ci fa male? Se ci fosse spiegato che ammettere di avere paura non ci rende fragili, ma umani? E se ci fosse dato il coraggio di dire, senza esitazione, che qualcosa ci sembra ingiusto, anziché soffocare la nostra voce nel timore di sbagliare? O ancora, se ci insegnassero che chiedere aiuto non è un fallimento, ma un gesto di forza e consapevolezza?
Imparare a riconoscere e accogliere le nostre emozioni non è solo un atto di amore verso noi stessi, ma una rivoluzione silenziosa che ci rende liberi: liberi di sentirci autentici, di stabilire confini sani, di costruire relazioni profonde. È attraverso questa educazione che crescono persone capaci di rispettare sé stesse e gli altri, pronte a riconoscere la violenza e a dire “no” con fermezza. Perché la vera forza nasce dalla consapevolezza, non dal silenzio.
Noi adulti, spesso senza rendercene conto, siamo i primi modelli di comportamento per i nostri figli. Ogni discussione affrontata con rispetto, ogni scusa sinceramente offerta, ogni abbraccio dato nei momenti di difficoltà lascia un’impronta nel cuore dei nostri bambini. Il dialogo aperto in famiglia, poi, è una chiave essenziale per rompere il silenzio che spesso avvolge le dinamiche della violenza. Parlare di rispetto, di consenso, di uguaglianza non è un argomento da riservare all’adolescenza: anche i più piccoli possono comprendere, attraverso il gioco e le storie, che ogni persona ha diritto a sentirsi al sicuro e amata. Allo stesso modo, è fondamentale che i nostri figli vedano noi genitori trattarci con rispetto reciproco: non si può insegnare il valore dell’uguaglianza se si perpetuano in casa dinamiche di dominio o svalutazione. È dai gesti quotidiani che si costruisce un modello di relazione sano e basato sull’amore autentico.
Se c’è una qualità che può realmente cambiare il mondo, questa è l’empatia. Mettersi nei panni degli altri, ascoltare senza giudicare, sentire il dolore altrui come fosse il proprio: sono atti semplici, ma potentissimi. L’empatia non è un dono innato: si coltiva. Insegniamo ai bambini, con il nostro
esempio, a chiedere “Come stai?” e a fermarsi davvero ad ascoltare la risposta. Facciamoli riflettere su come le loro azioni possano influenzare gli altri. Educhiamoli a riconoscere la bellezza della diversità e a rispettare le differenze di genere, cultura, orientamento e opinione.
La prevenzione della violenza di genere è, in ultima analisi, una questione culturale. E la cultura si costruisce a partire dalle storie che scegliamo di raccontare. Per troppo tempo, la nostra società ha glorificato modelli di mascolinità legati alla forza e al controllo, relegando la vulnerabilità e l’emotività a un ruolo marginale. Dobbiamo cambiare questa narrazione: aiutiamo i nostri figli, maschi e femmine, a capire che essere forti significa anche saper chiedere aiuto. Che il rispetto non è un atto dovuto, ma una scelta quotidiana. Che l’amore non è possesso, ma libertà.
La violenza di genere non è un destino inevitabile. È il risultato di comportamenti e atteggiamenti che, se trasmessi e accettati, si radicano in profondità. Il cambiamento comincia con noi, dentro le nostre case, con ogni parola gentile, con ogni ascolto sincero, con ogni insegnamento dato con amore. Seminiamo oggi i valori di cui abbiamo bisogno per costruire un domani migliore. Perché prevenire la violenza significa, prima di tutto, educare al rispetto e all’empatia. E l’educazione inizia da ciò che scegliamo di essere per i nostri figli, ogni singolo giorno.
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