Sabato 29 marzo, in occasione del convegno “La mentalità del campione”, ho avuto l’opportunità di ascoltare il Prof. Giuseppe Vercelli – psicoterapeuta, esperto di psicologia dello sport, psicologo ufficiale del CONI in numerose Olimpiadi e mental coach della prima squadra della Juventus.
Nel suo intervento, ci ha guidati in un viaggio tra sport e crescita personale, spiegando come ottimizzare la performance lavorando sulla connessione mente-corpo. Ha aperto con una panoramica lucida e coinvolgente sul cambiamento delle generazioni e sul loro nuovo modo di funzionare, offrendomi tanti spunti preziosi su cui riflettere.
Di fronte allo specchio del tempo, le generazioni si scrutano, si studiano, si giudicano. Talvolta si scontrano. Più spesso si fraintendono. Eppure, proprio in quell’incomprensione si cela la chiave per
capirsi meglio. Il “gap generazionale” – quel fossato apparentemente invalicabile che separa i giovani dagli adulti – è in realtà un campo fertile di evoluzione, una palestra sociale dove si allenano nuove visioni del mondo.
Ma cosa distingue davvero le generazioni tra loro? Non solo il numero sulla carta d’identità. Sono le esperienze condivise, le tecnologie usate, il linguaggio parlato, la percezione dell’autorità, la fiducia in sé stessi e nel futuro. E soprattutto, il modo in cui ciascuna affronta i problemi. Oggi, in un mondo accelerato dall’intelligenza artificiale e dall’iperconnessione, queste differenze sono più evidenti (e più interessanti) che mai.
Per i Boomer, nati nel dopoguerra, l’autorità era una colonna portante: si obbediva, si rispettava, si imitava. La fiducia si costruiva nel tempo, con le mani sporche di lavoro e la voce dell’esperienza. L’identità si formava dentro le mura di casa o dietro una scrivania, dove il capo aveva sempre l’ultima parola.
Oggi, per le generazioni Z e Alpha, il concetto stesso di autorità è cambiato radicalmente. Non è più verticale, ma orizzontale: si ascolta chi sa spiegare, chi è coerente, chi riesce a “parlare la tua lingua”. Per queste generazioni è autorevole anche chi dimostra, in modo autentico, che per lui tu sei importante, che hai un ruolo e un posto nella sua testa — che non sei un numero, ma una presenza reale con cui vale la pena entrare in relazione. Il riconoscimento non si ottiene con il titolo, ma con l’autenticità. Il professore deve anche essere empatico, il manager deve saper motivare, il genitore deve imparare a dialogare, e il coach – o il mister – deve saper ispirare, ascoltare e creare fiducia: non basta più dirigere, serve entrare in connessione. Il rispetto non è più dato per scontato: va conquistato.
In teoria, le nuove generazioni – cresciute tra stimoli digitali, contenuti personalizzati e una cultura della performance – dovrebbero essere le più consapevoli e sicure di sé. In pratica, non è così semplice.
I Millennials, stretti tra la precarietà e l’ideale della “realizzazione personale”, oscillano tra ambizione e burnout. La Gen Z, pur esprimendo una forte sensibilità su tematiche sociali e ambientali, fatica a leggere le proprie emozioni. La Gen Alpha, infine, sembra avviata a diventare una generazione paradossale: ultra-connessa ma potenzialmente sola, iper-consapevole ma fragile. Immersi in un mondo su misura, rischiano di non sviluppare del tutto gli anticorpi della frustrazione. La vita non ha sempre un filtro bellezza!
Eppure, è proprio l’autoefficacia – la convinzione di poter superare le sfide – a fare la differenza tra chi sopravvive e chi prospera. Ed è qui che le generazioni più anziane possono tornare utili: non per “insegnare” dall’alto, ma per offrire strumenti. Senza giudizio. Con rispetto. Un tempo autoefficacia e autostima viaggiavano su due binari paralleli ma distinti; oggi, invece, quei confini non esistono più. Un feedback espresso con parole sbagliate, in chiave negativa o giudicante, non colpisce solo la fiducia nelle proprie capacità, ma arriva a intaccare l’autostima stessa — quella consapevolezza profonda di avere un posto nel mondo. E quando si incrina l’autostima, viene meno anche l’automotivazione. Il risultato? Ci si chiude, ci si ritira, si tende ad andarsene.
Davanti a un problema, le generazioni reagiscono in modo molto diverso. I Boomer e la Generazione X – forgiati da crisi petrolifere, guerre fredde e rivoluzioni analogiche – hanno un approccio spesso lineare, razionale, frutto dell’esperienza. I Millennials sono strategici, creativi, ma a tratti bloccati dall’overthinking. La Gen Z è rapida, multitasking, collaborativa: ha imparato che chiedere aiuto è un atto di intelligenza, non di debolezza. E gli Alpha? Cresciuti con Alexa in salotto
e ChatGPT nello zaino, avranno l’intelligenza artificiale come alleata. Il rischio, però, è delegare troppo. Non sapere dove finisce il pensiero critico e dove inizia l’automatismo.
Le nuove generazioni mostrano spesso una maggiore abilità nell’affrontare problemi semplici o lineari, ma fanno più fatica con quelli complessi, che richiedono analisi, pazienza e visione d’insieme. Per questo diventa fondamentale spezzettare i problemi, offrire input un po’ alla volta, rendere i passaggi più digeribili e accessibili. A questo si aggiunge un altro dato cruciale: cambia il tempo di attenzione, che oggi si misura in pochi secondi. Per catturarlo – e soprattutto per mantenerlo – non basta parlare: bisogna saper colpire, incuriosire, agganciare subito.
Il vero punto sarà educarli non solo a risolvere, ma a porre le domande giuste. Perché in futuro, la soluzione sarà sempre più a portata di click. Ma la domanda giusta no.
Le nuove generazioni non cercano un capo. Cercano un coach, un mentore, un alleato. Qualcuno che dia valore alle loro intuizioni, che sappia ascoltare senza ridicolizzare, che offra visione senza imporre direzione. Vogliono riconoscimento, non approvazione. Empatia, non paternalismo.
Il modello del “grande vecchio saggio” si sgretola sotto i colpi di una società sempre più orizzontale, inclusiva e liquida. Il nuovo potere è la comprensione. Il dialogo. E in fondo, l’umiltà di sapere che ogni generazione ha qualcosa da imparare dall’altra.
Il tempo non divide: collega. La sfida non è capire “chi ha ragione”, ma cosa possiamo scambiarci.
In un mondo che cambia così velocemente, le generazioni devono imparare a vedersi non come “altri”, ma come capitoli diversi dello stesso libro. Forse con stili e vocabolari opposti, ma uniti dallo stesso intento: capire chi siamo, per immaginare insieme chi potremmo essere.
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