L’estate è la stagione della luce, dei pomeriggi infiniti e delle ginocchia sbucciate. È il tempo dei gelati che si sciolgono troppo in fretta e delle biciclette senza rotelle. Ma per molti genitori è anche il momento in cui l’ansia prende il sole con loro, sdraiata sul lettino accanto, pronta a ricordare tutti i possibili pericoli nascosti dietro una corsa in spiaggia o una serata tra amici.
I pensieri ricorrenti dei genitori oggi sono più che mai pieni di ombre: scuola inadeguata, amicizie discutibili, social usati come anestetico per la noia. A tutto questo si aggiungono le ansie globali — guerre, crisi climatica, incertezza economica. Il futuro sembra un mare agitato in cui i genitori vorrebbero mandare i figli con il giubbotto salvagente sempre allacciato.
Ma facciamo un passo indietro. L’ansia, di per sé, non è un mostro da abbattere: avere paura per i propri figli è un istinto evolutivo. È ciò che ha garantito la sopravvivenza della specie. Non saremmo qui se le nostre madri non avessero passato notti insonni a verificare che respirassimo. È il cervello rettiliano che si attiva, la parte più antica e protettiva del nostro sistema nervoso centrale.
Ma c’è un limite sottile e delicato tra la cura e il controllo, tra il proteggere e l’opprimere. E la neuropsicologia ci insegna che quando l’ansia genitoriale resta cronicamente attiva anche dopo i primi mesi di vita del bambino, può diventare tossica. L’amigdala, la centralina della paura, resta sempre in allarme e genera un circolo vizioso: genitori tesi, figli ipercontrollati, sviluppo dell’autonomia compromesso.
Sì, perché i bambini non imparano a gestire il rischio se non gli lasciamo spazio per esplorarlo. E qui arriva il paradosso: più cerchiamo di tenere i nostri figli al sicuro, più rischiamo di renderli insicuri. Lo dimostrano numerosi studi longitudinali: i figli di genitori iperprotettivi tendono a diventare più ansiosi, meno indipendenti e meno capaci di affrontare le sfide della vita.
Il punto non è smettere di avere paura — è impossibile e, in fondo, nemmeno auspicabile. Il punto è gestire quella paura… imparare ad addomesticarla! Darle un nome e riconoscerla per ciò che è: una reazione biologica e umana. E in estate, quando le routine saltano, la scuola si ferma, e i figli passano più tempo fuori controllo visivo, questa ansia può acuirsi. Ma può anche essere un’occasione.
Un’occasione per allenarsi a lasciarli andare un po’ di più, a fidarsi, a respirare più lentamente.Un’occasione per sedersi insieme a loro e parlare delle paure con parole vere, senza fingere che non esistano. I bambini sentono tutto, anche quando facciamo finta di niente. Meglio dire: “Sì, ho paura anche io. Ma possiamo affrontarla insieme.”
Essere genitori non significa solo amare. Significa anche preoccuparsi, sbagliare, imparare e poi… preoccuparsi di nuovo. È un ciclo che non si spezza mai del tutto. Non importa se siamo tipi zen che meditano alle 6 del mattino o quelli che vivono col Google Calendar stampato in fronte: ci saranno sempre momenti in cui l’ansia prende il sopravvento. E va bene così.
Tutti i genitori attraversano tempeste emotive, prima o poi. È parte integrante del “contratto emotivo” che si firma – senza leggerlo – quando nasce un figlio. Non si può fare il genitore senza passare per notti in bianco, pensieri ricorrenti e un senso cronico di inadeguatezza che ci accompagna come un’ombra discreta ma presente.
E poi, spoiler: anche quando facciamo tutto “bene”, le cose possono comunque andare storte. Perché la vita non segue mai il piano genitoriale a punti. Possiamo preparare la merenda bio, bloccare gli schermi dopo le 21 e scegliere solo scuole con cortile e approccio montessoriano… e poi un giorno nostra figlia torna a casa piangendo per un’amicizia finita, o nostro figlio ci confessa che ha paura di non essere all’altezza. E noi, lì, con le nostre ansie e tutto il nostro amore, capiamo che non possiamo proteggerli da tutto. Ma possiamo esserci!
La verità è che le paure cambiano con loro. Quando sono neonati controlliamo che respirino ogni cinque minuti (sì, lo facciamo tutti, anche quelli che lo negano). Quando hanno due anni e salgono da soli sullo scivolo, ci immaginiamo mille scenari apocalittici in tre secondi. A dodici anni, il cuore si stringe quando li vediamo uscire con un gruppo di amici e uno zaino pieno di autonomia nuova di zecca. A diciotto, invece, la sfida è quella più grande di tutte: lasciarli andare, davvero.
E la parte assurda? Anche quando sono adulti, lontani, con la loro casa e il loro Wi-Fi, continuiamo a svegliarci di notte pensando a loro. Lo dice la scienza, non solo il cuore: molti genitori continuano ad avere disturbi del sonno legati alla preoccupazione per i figli anche dopo che questi se ne sono andati di casa. Un legame biologico, neurologico, esistenziale. Un pezzo di cervello resta sempre sintonizzato sul loro canale, pronto a captare ogni segnale, anche da lontano.
Ma ecco il lato luminoso della medaglia: la genitorialità è un’opportunità irripetibile di vivere il presente. Di tornare a sentire il qui e ora, di rientrare nel corpo, nella relazione, nella fragilità. È un’educazione al presente, anche nei giorni stanchi. Perché ogni età dei figli ci costringe a confrontarci con le nostre paure, i nostri limiti, i nostri sogni. Ci invita a evolvere mentre loro crescono.
Genitori si diventa ogni giorno, non una volta sola. E anche se la strada è accidentata, fatta di incertezze, ansie e piccoli fallimenti, è anche la strada che ci insegna ad amare senza garanzie, a fidarci del processo, a lasciare spazio. E in estate, questa lezione vale doppio: con più tempo libero,più imprevisti e più possibilità di imparare — finalmente — che non serve essere perfetti per essere genitori straordinari.
Non dobbiamo essere genitori perfetti. Dobbiamo essere genitori reali. Stanchi, a volte insicuri, ma capaci di aprire uno spiraglio tra l’ipercontrollo e la fiducia. Perché la vera crescita — e non solo quella dei figli — sta nell’equilibrio tra il lasciar fare e il saper esserci.
L’estate può essere il laboratorio ideale per tutto questo. Niente scuola, più tempo insieme, più possibilità di mettere in pratica la difficile arte della fiducia. Lasciamo che si arrampichino su quel ramo, che provino a nuotare senza braccioli, che sbaglino strada col motorino. Restando nei paraggi, ma facendo un passo indietro.
In fondo, crescere (per loro) e lasciar crescere (per noi) è il lavoro invisibile dell’estate.
Vi auguro un’estate serena, imperfetta, coraggiosa. E, perché no, anche un po’ più leggera.
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